Come in tutti campi nei quali l’elemento umano svolge un ruolo fondamentale, anche nella pesca a traina le abitudini e le esperienze personali finiscono con il prevalere su qualsiasi altro elemento. E’ per questo motivo che, al di là di quell’impronta stilistica che ormai tutti riconoscono come “fisherman”, non è possibile affermare rigidamente quali caratteristiche distinguano una semplice imbarcazione da diporto da una sofisticata “fishing-machine”, come usano dire gli americani.
Una prova di ciò è rappresentata dalla più importante inversione di tendenza che il settore abbia mai mostrato: fino ad alcuni anni fa, qualsiasi pescatore evoluto avrebbe gridato allo scandalo, scorgendo una muta di canne da traina su un motoscafo planante, dotato di una coppia di potenti fuoribordo. Oggi, invece, soprattutto nell’Alto Adriatico, dove la cosiddetta pesca in drifting ai tonni giganti viene praticata ai massimi livelli mondiali, le barche utilizzate a tale scopo presentano spesso proprio queste caratteristiche. Vediamo perché. Quella del drifting (termine inglese che significa deriva, nel senso di azione della corrente) è sostanzialmente una tecnica di attesa: il team di pescatori giunge sul posto prefissato – talvolta a parecchie decine di miglia di distanza dalla costa – e, una volta ridotta la velocità, incomincia a preparare il campo, gettando in mare una certa quantità di esca; quindi spegne i motori, si pone al centro della zona “trattata” e fila le lenze. Tutto è apparentemente calmo fino a quando la grossa preda abbocca. La “ferrata” di un tonno gigante è impressionante. Per contrastarla, o meglio, per assecondarla, non bastano le pur forti braccia dell’angler (la persona che tiene in mano la canna in questione, restando legata alla cosiddetta sedia da combattimento): è anche necessario manovrare opportunamente la barca. Perciò, il pilota avvia immediatamente i motori e, seguendo le indicazioni che gli provengono dai compagni, si predispone a quello che può assomigliare a un serrato rodeo. E’ dunque comprensibile che, tra timoneria e pozzetto, vi sia un continuo contatto ottico-acustico.
Non solo feeling, dunque, ma anche un filo diretto fra angler e skipper; ed è per questo motivo, che sui cabinati, è un flying-bridge piccolo, senza parti aggettanti, a ricoprire il ruolo di stazione di guida principale, mentre la timoneria interna potrebbe anche non esistere, come nel caso di molti fisherman di produzione americana. In alcuni casi poi, la visuale dalla timoneria esterna è ritenuta talmente importante, da giustificare il suo innalzamento a livelli davvero inconsueti, mediante l’installazione della cosiddetta tuna-tower: una vera e propria torre metallica di avvistamento. Ma torniamo al combattimento. Quando la preda, ormai stremata, si lascia portare sottobordo, è necessario imbarcarla. Nel caso dei nostri amici dotati di motori fuoribordo, non c’è altro da fare che ricorrere ai raffi e alla forza delle braccia: infatti, su quel genere di barche, manca la possibilità di aprire sullo specchio di poppa una tuna-door, cioè, quel portello che consente proprio di trascinare nel pozzetto le grosse prede, senza essere costretti a scavalcare le impavesate.
fisherman dotati di motorizzazione con trasmissione in linea d’asse, i quali possono anche avvantaggiarsi di una piattaforma poppiera, anch’essa utile al recupero delle prede più importanti, e di una più comoda sistemazione – al centro del pozzetto – della sedia da combattimento. Sorge spontanea la domanda: allora, perchè non preferire, in assoluto, quest’ultima configurazione? La risposta è semplice: il motore fuoribordo garantisce un’eccellente manovrabilità; contrariamente a un Diesel, non soffre particolarmente delle partenze a freddo; permette di ottenere alte velocità anche su barche di dimensioni contenute, cioè più economiche. Comunque, al di là di questo apparente paradosso storico, quel che resta alle imbarcazioni di tipo tradizionale – grazie alla loro possibilità di navigare per molto tempo a bassa velocità, conservando un’ottima stabilità di rotta – è pur sempre il più vasto repertorio di pesca.
La tecnica più famosa, anche perchè soggetta a continua sperimentazione, è quella della traina d’altura. Le imbarcazioni che la praticano sono facilmente riconoscibili, in quanto, dovendo filare a mare la massima quantità possibile di lenze, presentano una folta chioma di canne che svetta ben al di sopra dell’immancabile flying-bridge e persino – quando c’è – dell’alta tuna-tower. Il pozzetto è di forma regolare e, di norma, non presenta sporgenze né sul pagliolato né sul capodibanda: generalmente, la ferramenta di coperta consiste infatti in una coppia di passacavi ad anello, che permettono alle cime d’ormeggio di prender volta su bitte verticali, alloggiate all’interno delle sponde. L’unico impiccio tollerato, sullo specchio di poppa, può essere rappresentato da un downrigger per la traina di fondo (un sistema che permette appunto di affondare le lenze), il quale però deve poter essere facilmente smontato. Un’attrezzatura che non deve mancare, se il team intende dedicarsi alla traina lenta o a una particolare variante della traina di fondo, è rappresentata dalle vasche ossigenate per la conservazione dell’esca viva. Benché, in linea di principio, si possa modificare un qualsiasi gavone esterno per renderlo adatto a questo scopo, è comunque sempre meglio trovarlo già pronto o, quantomeno, predisposto. Ma non basta. Questa traina si chiama “lenta” proprio perchè, per praticarla con profitto, è necessario che la velocità dell’imbarcazione non superi i due nodi. Orbene, nella maggior parte dei casi, persino gli scafi monomotore hanno una velocità minima sensibilmente superiore. La soluzione più tecnica del problema è rappresentata dall’applicazione delle trolling-valves, le quali, riducendo la pressione all’interno degli invertitori idraulici, possono ulteriormente rallentare, a piacimento del pilota, il regime minimo di rotazione delle eliche.